Questa mattina dalla nostra finestra godiamo di uno spettacolo inconsueto: la neve copre i tetti delle case e i tettucci (o “coperchi”, come direbbe qualcuno a casa mia) delle auto.
La neve, qui al nord, non dovrebbe sorprendere, eppure sembra essere diventata come la nebbia: quasi un mito, uno stereotipo dei tempi passati. Un’eccezione, più che una regola, al punto che, quando capita di uscire di casa e non vedere ad un palmo dal naso viene quasi da riempirsene i polmoni ed essere felici. Sa di infanzia, di gioventù. Per questo la riconosciamo come amica.
Così decido di tenere fede a quanto scritto nel precednte articolo e di continuare le mie “Le fiabe da tavola del nonno Silvestro” in questo blog. Questo libro altro non è che la raccolta di storie e ricordi della mia famiglia, di cui in Nonno Silvestro è portabandiera, oltre che ispiratore.
Ma non tutte le storie contenute nel libro sono sue; infatti la storia che sto per raccontare riguarda mia mamma, la nonna Lina.
La nonna Lina, benché abbia anche origini argentine, è nata e cresciuta in Piemonte. Quando era piccola e iniziava ad andare a scuola si era in pieno XX fascista, poi purtroppo sfociato nella terribile guerra che conosciamo, ma lei era appunto una bambina e di queste cose non si curava per nulla. Nei suoi ricordi si parla spesso del freddo, della paura delle restrizioni dovute al periodo, ma traspare comunque (per fortuna) una sana e allegra infanzia vissuta per lo più all’aperto. Lei abitava in un piccolo paese in provincia di Cuneo, la Granda[1] come direbbero da queste parti.
La neve, a quei tempi, non era di sicuro rara come oggi; la nonna fissava con i suoi occhi da bambina i cumuli ammucchiati ai lati delle strade e, dal suo punto di vista, non potevano essere che montagne, dato che la superavano in altezza.
Ovviamente lei non disponeva di attrezzature tecniche: tutto l’abbigliamento era cucito dalla sua mamma, il papà aveva provveduto (ingegnandosi) a costruire le scarpe che poi altro non erano che una sorta di zoccoli scavati nel legno a cui era stata applicata una copertura di pelle. Intendiamoci: la nonna Lina non si è mai lagnata di quelle scarpe. Erano, dice, un pochino dure e rigide, ma le aveva fatte il suo papà e lei ne era giustamente orgogliosa.
Era inverno, la neve era alta ma bisognava andare a scuola. Per fortuna la scuola elementare non era lontana, non avrebbe fatto comunque differenza: i bambini si preparavano e uscivano di casa facendo la strada da soli.
Prima di uscire la nonna riceveva due pietre riscaldate sulla stufa (il famoso potagé[2]) da tenere in tasca. Camminando teneva i pugnetti serrati e affondati nelle tasche, sfruttando al massimo quel po’ di calore latente che ne proveniva. Durava ovviamente sì e no il tempo di raggiungere la classe dove, al fondo, era già pronta una piccola stufetta a legna. La suora, che svolgeva il compito di maestra, accoglieva quei poveri pulcini infreddoliti.
Già, la suora. Di lei parleremo forse anche più avanti perché era un’educatrice inflessibile e la nonna era un pochino troppo vivace: un’accoppiata perfetta per generare storie spassosissime…
No, i suoi ricordi di scuola meritano una trattazione a parte, qui parliamo di neve.
Dunque: la giornata iniziava aprendo gli occhi nel suo lettone caldo. Il materasso non era certo in schiuma di lattice: era di paglia. Le coperte erano in lana e, se eri fortunato, cuscino di piume d’oca. Vivere in campagna aveva i suoi vantaggi.
Un nido caldo e morbido, quindi, che però contrastava con il freddo della stanza che, ovviamente, non era riscaldata. Questo però non dispiaceva alla nonna perché in questo modo si formavano meravigliosi disegni di ghiaccio sui vetri della sua camera. Ogni mattina diversi dai precedenti e, se per caso, un raggio di sole centrava la finestra… si accendeva un mondo magico e fatato.
Da quella stessa finestra la nonna guardava spesso suo papà che scendeva in cortile a lavarsi. Giunto accanto al lavatoio prendeva in mano ciò che era assolutamente necessario alle abluzioni mattutine: vale a dire una mazza di ferro, indispensabile a sfondare lo strato di ghiaccio per raggiungere la fresca acqua sottostante.
Solo a pensarci mi viene freddo, quando si dice che erano di un’altra tempra non si scherza mica!
Comunque i bambini si lavavano e vestivano in cucina, accanto alla stufa accuditi dalla mamma.
Colazione e via. Del viaggio abbiamo già detto, ma cosa c’era nell'inverno di insuperabilmente bello per una bambina come la nonna?
Scivolare sul ghiaccio, ovviamente.
Tutte le pozzanghere diventavano piste da pattinaggio e, soprattutto, suo papà costruiva sì il classico pupazzo di neve (con l’inevitabile carota come naso) ma in più ammucchiava la neve del cortile in cumuli di livello diseguale che poi sapientemente compattava univa e spianava, fino a creare meravigliosi scivoli. Una bella innaffiata serale e il giorno dopo la neve accatastata non era più un impaccio perché si era trasformata nel più divertente dei giochi.
Ma se si poteva fare a casa, rifletteva la nonna, perché non davanti la scuola? Non sono sicuro che la realizzazione fosse stata sua, ma credo che l’idea fosse partita proprio da lei.
Come ricorderete la nonna Lina era un pochino maschiaccio, come la definivano le compagne e come orgogliosamente si definiva ella stessa. Quindi, con l’aiuto dei maschietti della classe, si improvvisò costruttore di scivoli anche davanti all’entrata della scuola. Per un po’ tutto andò bene, tutti scivolavano e si divertivano. Bambini e bambine si sfidavano a gare di velocità ed equilibrio sul ghiaccio.
Ma...
Ovviamente il vociare e le risate attirarono la maestra che, incuriosita, si affacciò alla porta.
E fin qui ancora tutto bene.
Purtroppo però ella decise anche di uscire a controllare, e fu così che la povera suora si ritrovò su una lucida pista di ghiaccio, predisposta appositamente con avvallamenti e gobbe smussate dai bambini festaioli. La poveretta non riuscì a mantenere l’equilibrio e si esibì in tutta una serie di acrobatiche (e spassosissime) figure, che evidenziarono un aspetto atletico mai individuato prima dai ragazzi nella loro insegnante.
Per farla breve (ma dai racconti della nonna pare che lo spettacolo durò molto più di quanto la suora avrebbe voluto) la maestra cadde, come prevedibile, lunga distesa sul ghiaccio in una coreografia di gonne e veli neri, bordi bianchi e… mutandoni di lana nera!
Già, quindi “anche le suore indossano i mutandoni?” si chiesero i bambini presenti. Fu solo un attimo, perché subito un adulto accorse velocemente in aiuto della povera suora e lo spettacolo finì.
Purtroppo non poterono più allestire scivoli in quella bella piazzetta…
[1] Capoluogo della Granda, dovuto all'estensione della provincia (4ª d'Italia) e Città dei 7 assedi, per ragioni storiche
[2] Nelle campagne, il potagé era la cucina più popolare, pensata per provvedere sia al riscaldamento che alla cucina